Se il medico non riconosce i sintomi dell’infarto e il paziente muore è imputabile di omicidio colposo, ma solo se si dimostra che una sua condotta doverosa non avrebbe procurato conseguenze al paziente
La Corte di Cassazione, Sezione IV penale, con la recente sentenza del 10 dicembre 2020, n. 35058, ha stabilito che la condotta omissiva del medico può considerarsi causa dell’evento morte, solo se viene dimostrato che, svolgendo quanto necessario o prescrivendo l’esame necessario, non si sarebbe verificato il decesso del malato.
Il ragionevole dubbio sulla ricostruzione del nesso causale e sull’efficacia della condotta del sanitario “rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comporta la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.
La vicenda:
La Corte di Appello di Bologna, all’esito di giudizio abbreviato, confermava la pronuncia di condanna emessa dal Tribunale di Modena, il 31.02.2018, nei confronti di F.G., medico di medicina generale, nella quale il Gup riteneva che l’evento morte fosse ascrivibile all’imputato, in quanto, pur essendo al corrente della storia clinica del paziente, conoscendone i rischi cardiovascolari enonostante il medesimo lamentasse dolori alla spalla, non prescriveva un ECG di urgenza e ulteriori accertamenti di laboratorio che avrebbero permesso di identificare la patologia coronarica,evitandone la morte. Il Tribunale peraltro riteneva che se il sanitario avesse richiesto i suddetti esami, l’aspettativa di sopravvivenza del paziente sarebbe stata pari al 96,8%.
La Corte di Appello sviluppava i profili della colpa e del nesso di causa, focalizzandosi su: “La letteratura scientifica è concorde nel ritenere che, in presenza di un dolore toracico, la diagnosi sia spesso difficoltosa, per cui una corretta diagnosi deve essere formulata non solo sulla base della localizzazione, irradiazione e qualità del dolore ma anche tenendo conto del “comportamento” del dolore stesso (insorgenza, regressione, durata, frequenza, sintomi associati); la sintomatologia del tipo di quella lamentata determinava quanto meno una situazione di particolare attenzione e diligenza in relazione alla storia pregressa, alle sue patologie, al dolore presentato, che non si attenuava con gli antidolorifici, e che richiedeva la prescrizione al paziente dell’Ecg d’urgenza, con invio al pronto soccorso per convalidare o meno una diagnosi differenziale ed alternativa di dolore anginoso. Ha ritenuto che il comportamento del F.G. sia qualificabile come colpa gravemente negligente e superficiale in violazione delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica ma anche del sapere comune diffuso”.
Il medico impugnava la sentenza gravata, ritenendo che nella stessa non fosse dimostrato il nesso causale e censurandola altresì, laddove non menzionava la legge scientifica in base alla quale i sintomi sarebbero stati indicatori della patologia cardiaca che ha portato il paziente a morire d’infarto.
I motivi sollevati nel ricorso in Cassazione:
I) Inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 40 c.p. in quanto la condotta colposa omissiva si è concretizzata nell’omessa prescrizione dell’ECG e quindi nel mancato inserimento della sindrome coronarica acuta tra le diagnosi differenziali. Deduce che al momento della visita mancavano i sintomi cardiologici di sofferenza anginosa premonitori di un accesso infartuale; i Giudici di merito omettono di indicare la legge scientifica in base alla quale i sintomi erano patognomici della malattia cardiaca che portò il paziente a morire d’infarto;
II) Vizio di motivazione in ordine alla sussistenza di nesso causale tra la mancata richiesta dell’ECG e la visita cardiologica urgente e la probabilità concreta di sopravvivenza;
III)Vizio di motivazione e sussistenza della colpa lieve accertata dal perito con incidente probatorio rilevante ai sensi del decreto Balduzzi in considerazione della peculiarità del caso e delle condizioni del paziente.
La decisione della Cassazione:
Con la sentenza del 10 dicembre 2020 n. 35058, la Suprema Corte accogliendo il ricorso del sanitario, riteneva che la motivazione dei giudici di merito presentasse diverse lacune, laddove silimitavano a definire gravemente colposo il comportamento del medico, senza appurarne la sussistenza del nesso causale fra il comportamento colposo per omissione addebitato al sanitario e l’evento morte del paziente, cioè, senza accertare se tenendo la condotta omessa, l’evento morte sarebbe stato evitato.
E difatti la Suprema Corte censura la sentenza impugnata, in quanto non vi è applicazione della giurisprudenza consolidata in tema di nesso causale, in particolare, con riguardo alla necessità di dare atto ai dati statistici provenienti dalle leggi scientifiche, con precisi elementi fattuali, idonei a provare, con elevato grado di credibilità razionale, che con una tempestiva diagnosi differenziale del medico, l’evento lesivo sarebbe stato ragionevolmente evitato.
La condotta omissiva del medico è la condizione necessaria dell’evento lesivo quando ciò sia dimostrato, mentre “L’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio” (Sez. U. 10.7.2002, Franzese).
Nella fattispecie in esame, in conclusione, la sentenza della Corte d’Appello difettava di una motivazione sull’effetto salvifico della condotta omessa, non veniva assolutamente affrontata la tematica delle linee-guida o delle buone pratiche clinico-assistenziali e non veniva dimostrato chese il sanitario avesse tenuto una condotta diversa l’evento morte sarebbe stato evitato.