Giurisprudenza Penale

La responsabilità penale dei medici – amministratori di struttura sanitaria

 La riforma del reato di abuso in atti di ufficio, uno dei reati più controversi del nostro sistema penale, finalmente agevola il compito di chi deve amministrare

La norma

L’art. 323 c.p., sanziona il pubblico amministratore che agisca in violazione della Legge.

Tale articolo si applica a pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio; inutile dire che il medico si trova spesso a svolgere funzioni e prendere decisioni non in quanto medico, ma in quanto pubblico amministratore (direttore generale – amministrativo – sanitario – responsabile di UOC – primario etc).

Nello svolgimento di tali funzioni, ove agisca asseritamente in violazione di norme di legge, anche il medico corre il rischio di subire il processo che potrebbe portarlo alla condanna di una pena da uno  a quattro anni.

 

La “paralisi della firma” – l’evoluzione della norma

Tale norma, attesa la sua genericità ed indeterminatezza, rende il Giudice arbitro di valutare qualsiasi comportamento del pubblico amministratore come reato.

L’effetto, sotto gli occhi di tutti, è il cd. “panico da firma”, vale a dire il motivato terrore che hanno i pubblici amministratori di firmare qualsiasi atto e di prendersi qualsiasi responsabilità.

Rendendosi conto del problema, il Legislatore è intervenuto più volte sul testo dell’articolo in questione. Infatti in origine l’art. 323 c.p., puniva fumosamente chiunque in qualsiasi modo “abusasse” del proprio potere.

Per questo motivo, allo scopo di mettere un freno agli abusi interpretativi della Magistratura penale, la disposizione dell’articolo venne modificata, con la previsione di punire il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, che agisse in violazione di “norme di legge o di regolamento…”

Il Pubblico Ministero aveva almeno l’onore di individuare leggi o regolamenti violati.

Purtroppo, la Magistratura inquirente ha scatenato la caccia a norme regolamentari, spesso di difficile interpretazione e di confusa esposizione, al fine di eccepirne la violazione e di aprire dei procedimenti penali.

 

L’ultima forse decisiva riforma

La situazione aveva raggiunto tali livelli di gravità e la “paralisi della firma” tali livelli di estensione, da richiedere un nuovo intervento del Legislatore, il quale con Decreto Legge del 16 luglio 2020 articolo 23 (c.d. Decreto semplificazioni), ha modificato di nuovo la parte dispositiva dell’art. 323 c.p., prevedendo che sia sanzionabile il pubblico ufficiale, o l’incaricato di pubblico servizio, che nello svolgimento delle funzioni o del servizio, agisca in violazione “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla Legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

La riforma questa volta induce la speranza di ottenere finalmente, nei pubblici amministratori, una riduzione del sacro terrore di assumere responsabilità.

 

Gli attuali limiti del reato di abuso d’ufficio

L’ importantissima novità è che la violazione deve riguardare leggi o atti aventi forza di legge, quindi basta con la pletora di norme regolamentari di vario ed indeterminato rango, queste sono ormai del tutto ininfluenti.

In secondo luogo, si impone il principio “di stretta interpretazione”: in buona sostanza sarà difficile d’ora in poi per il Magistrato attribuire alle norme di legge l’obbligo di un comportamento che non emerga chiaramente dall’articolato: attualmente, infatti, si richiede la violazione di “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla Legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

Pertanto, in tutti i casi in cui la norma di rango legislativo (e non più regolamentare), indichi con chiarezza l’obbligo di comportarsi in un certo modo, senza lasciare al pubblico amministratore margini di interpretazione, la sua violazione costituirà reato.

Al contrario, nei casi in cui la legge consenta uno spazio discrezionale, l’agire nell’ambito di questo spazio non potrà costituire reato.

Deve essere chiara la portata di questa riforma: l’abuso in atti di ufficio viene contestato al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio, quando le indagini non abbiano evidenziato alcun altro più grave reato, ovvero non sia stata provata la prova né di corruzione né di concussione.

Fino ad oggi, a fronte di tale situazione, se, tuttavia, il Pubblico Ministero si convinceva che vi fosse un comportamento non conforme alla interpretazione che il suo ufficio dava ad una certa norma, ebbene in tal caso, dava per scontato il dolo senza preoccuparsi di provarlo in alcun modo ed apriva un procedimento giudiziario.

In buona sostanza, veniva colpita come abuso in atti di ufficio, la lecita ed anzi doverosa applicazione discrezionale della Legge e dei regolamenti: le Procure si sostituivano ai pubblici amministratori, nell’individuare la corretta interpretazione delle norme regolatrici.

Conseguentemente, ogni volta che prendeva una decisione e firmava un atto, il pubblico amministratore pur essendo in buona fede ed agendo nel modo che la sua preparazione e la sua professionalità gli indicavano, sapeva che, ove un Pubblico Ministero l’avesse pensata diversamente, avrebbe potuto mandarlo a giudizio.

E’ ovvio che non volesse più firmare nulla!

Dopo la riforma esposta, applicabile retroattivamente a tutti i procedimenti penali in corso è finalmente sperabile che chi deve amministrare, possa farlo con la dovuta serenità.

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