Riconosciuto diritto di utilizzare embrione crioconservato senza consenso dell’ex marito con il quale è stato fecondato
La recentissima pronuncia, del 25 febbraio 2021, del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha riconosciuto alla donna il diritto di impiantare nel proprio utero embrioni precedentemente crioconservati ai fini di una futura tecnica di procreazione medicalmente assistita, anche senza il consenso dell’ex marito con i cui gameti erano stati fecondati gli ovociti.
La pronuncia di cui si tratta, adottata dal Tribunale in composizione collegiale, a conferma della precedente ordinanza dello scorso 27 gennaio del Tribunale monocratico, ha affrontato per la prima volta un annoso problema sul quale fino ad oggi esisteva un vuoto normativo.
Normativa in materia di PMA
La prima regolamentazione legislativa delle tecniche di fecondazione assistita è stata introdotta nell’ordinamento italiano dalla legge n. 40 del 2004, Ma. il problema affrontato dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), sotto il profilo oggettivo, ha iniziato ad esistere con la sentenza 151/2009 della Corte Costituzionale che, modificando la legge, ha iniziato a permettere il congelamento degli embrioni.
Fino a quel momento, infatti, la norma prevedeva che si potessero fecondare fino a un massimo di tre ovociti, i quali avrebbero dovuto essere simultaneamente impiantati nell’utero della donna.
E ciò in quanto l’assetto normativo di tale previsione legislativa è permeato da forti garanzie per il concepito, arrivando a prevedere che ad ogni embrione, una volta fecondato, doveva essere data una chance di nascita e prefigurando una prevalenza degli interessi dello stesso anche rispetto ai diritti dei futuri genitori, compreso quello alla salute della madre.
La sentenza del Tribunale di S. Maria Capua Vetere
L’art. 6 comma 3 della l. 40/2004, infatti, vieta la revoca del consenso al trattamento dopo la fecondazione e all’art. 14, comma 3, si ammette la sospensione del trasferimento in utero degli embrioni creati in vitro solo per «grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione».
La sentenza ha invocato proprio il comma 3 dell’articolo 6 della Legge 40/2004: “La volontà di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal presente comma fino al momento della fecondazione dell’ovulo”.
In altri termini, ciascun membro della coppia può rifiutarsi di diventare genitore fino al momento in cui non c’è il concepimento.
In materia di PMA, insomma, il momento fecondativo segna il termine ultimo entro cui le parti hanno ancora la facoltà di ritirare il consenso alla procedura riproduttiva. Una volta superato tale termine, qualsiasi evento che infici il rapporto tra gli aspiranti genitori, come l’eventuale cambiamento di predisposizione nei confronti del trattamento, risulta giuridicamente irrilevante. La ratio sottesa è appunto quella di tutelare l’embrione.
Il diritto alla vita dell’embrione
La giurisprudenza di legittimità a più riprese, ha confermato che il fine ultimo delle tecniche di PMA deve essere quello del soddisfacimento del diritto alla vita dell’embrione.
Secondo gli Ermellini: “Consentire la revoca del consenso anche in momento successivo alla fecondazione dell’ovulo, non apparirebbe compatibile con la tutela costituzionale degli embrioni, più volte affermata dalla Consulta” (tra le altre, Corte cost. 151/2009 e 229/2015)
Ogni divieto di concepimento, infatti, anche quando funzionale ad assicurare la preminenza dei diritti del figlio su quelli degli aspiranti genitori, impedirà tout court la venuta ad esistenza di quell’essere umano.
Inoltre, “l’attribuzione dell’azione di disconoscimento al marito, anche quando abbia prestato assenso alla fecondazione eterologa priverebbe il nato di una delle due figure genitoriali e del connesso rapporto affettivo ed assistenziale, stante l’impossibilità di accertare la reale paternità a fronte dell’impiego di seme di provenienza ignota” (Cass. civ., sez. VI, 18 dicembre 2017, n. 30294).
Lo stesso giudice di Santa Maria Capua Vetere, dr. Giovanni D’Onofrio, nell’ordinanza ora confermata dal collegio, ha scritto: «Tra il non nascere e il nascere in una famiglia di genitori separati, deve ritenersi prevalente la seconda opzione».
Poco più di 20 anni fa il Tribunale di Bologna aveva deciso un caso simile in modo diametralmente opposto argomentando sulla scorta di due presupposti: il fatto che “gli ovuli umani fecondati ma non impiantati sarebbero entità ben diversa dagli embrioni già allocati nell’utero materno”, e quello per cui essi non godrebbero in ogni caso “della stessa tutela legale della persona nata viva”. Così, sulla scorta di ciò, “considerato che il diritto di procreare o di non procreare è costituzionalmente garantito, specie qualora non vi sia in atto una gravidanza, sarebbe in netto contrasto con il diritto di non procreare riconosciuto anche al genitore di sesso maschile la concessione alla sola donna di decidere se procedere nell’impianto in utero degli embrioni”.
La sentenza del tribunale campano in commento, invece, prendendo le mosse dal dato legislativo di cui al comma 3 dell’art. 6 l. 40/2004, nonché da tutto l’orientamento giurisprudenziale, sia di merito che di legittimità, che vede come scopo ultimo di tutto l’assetto normativo quello di assicurare la maggior tutela degli interessi dell’embrione, ordina il trasferimento intrauterino degli embrioni crioconservati, così come richiesto dalla ricorrente, nonostante il diverso volere dell’ex marito.
Posizione asimmetrica tra uomo e donna
Sebbene il consenso dei genitori non possa essere revocato dopo la fecondazione, l’impianto in utero dei concepiti viene qualificato come trattamento sanitario e come ogni trattamento sanitario può essere rifiutato dalla donna. È per questo che tra uomo e donna v’è una posizione asimmetrica .
La giurisprudenza di legittimità, a più riprese, ha tentato di riportare nella giusta prospettiva il rapporto madre-embrione.
Se è vero, infatti, che le moderne tecnologie riproduttive permettono di scindere la riproduzione dalla sessualità e, laddove consentito dall’ordinamento, supportano la distinzione tra genitorialità genetica, uterina e giuridico-sociale, è altrettanto vero che, ad oggi, nessuna tecnologia consente di prescindere dal corpo di una donna e, in particolare, dal suo utero, per la gestazione e la nascita di un feto, comunque concepito.
Tali tentativi, però, hanno sempre guardato al diritto alla salute della madre in relazione con il soddisfacimento del diritto alla vita dell’embrione.
In un contesto normativo e giurisprudenziale così delineato, si inserisce la recentissima pronuncia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Una pronuncia, questa, che conferma l’orientamento tanto legislativo quanto giurisprudenziale di assicurare la maggior tutela agli interessi dell’embrione.