La conseguenza della carenza documentale non può che gravare negativamente sul professionista sanitario che è tenuto a controllare la completezza e l’esattezza delle cartelle cliniche e della documentazione allegata
La cartella clinica è un atto pubblico la cui redazione è soggetta a precise formalità e regole, soprattutto in quanto può essere utilizzata per verificare il corretto svolgimento dell’attività dei sanitari e, in caso di giudizi di responsabilità medica, ha valore probatorio.
Proprio tale valore probatorio rende la cartella clinica un documento fondamentale sia per il paziente che per il medico curante e la struttura sanitaria.
Infatti, proprio tramite questo documento è possibile seguire l’iter diagnostico e terapeutico completo del paziente, potendo in tal modo, altresì, verificare se vi siano stati errori od omissioni da parte dei sanitari che hanno preso parte ai vari processi.
È per tale motivo che la compilazione di questo documento deve essere completa e pertinente e deve riportare fedelmente quanto accaduto durante tutta la durata del ricovero e le diverse fasi della terapia.
Inoltre, deve esserne sempre garantita la tracciabilità e l’accesso: il paziente, infatti, deve poter consultare la cartella clinica in qualsiasi momento ed acquisirne la relativa documentazione in tempi congrui. Tanto, anche in virtù della natura che la Suprema Corte ha riconosciuto a tale particolare documento, considerandolo sempre finalizzato a garantire la compiuta attuazione del diritto alla salute.
La responsabilità del primario
Per costante orientamento giurisprudenziale, responsabile della cartella clinica, della sua corretta compilazione e conservazione, è il primario del reparto in cui si trova ricoverato il paziente, per tutto il periodo di permanenza del paziente nella struttura sanitaria.
Considerata la natura di atto pubblico della cartella clinica, la stessa va conservata a tempo indeterminato. Per cui, una volta che il primario l’abbia sottoscritta, accertandone in tal modo la completezza e la regolarità, la cartella clinica dovrà essere conservata negli archivi della struttura sanitaria.
Da tale momento, responsabile della stessa non potrà più essere considerato il primario che l’ha compilata: la responsabilità per la conservazione cade proprio sulla struttura sanitaria, la quale, quindi, risponderà in caso di smarrimento della stessa, come chiarito da Cass. civ. sez. III, sent. n.18567 del 13.07.2018.
La responsabilità della struttura sanitaria
Si profilano, insomma, due distinte ipotesi di responsabilità: quella della struttura sanitaria nel caso di smarrimento o mal conservazione della cartella clinica; quella del medico nel caso di incompletezza della stessa.
La Corte di Cassazione ha avuto modo di esprimersi proprio su quest’ultimo profilo di responsabilità.
In linea con i propri precedenti, soprattutto in virtù del fatto che il paziente, sebbene gravato dell’onere probatorio, non debba provvedere a “individuare specificamente la condotta omessa o l’errore commesso, essendo sufficiente che venga individuata la prestazione asseritamente mal adempiuta e che venga ipotizzato un nesso causale fra la stessa e il pregiudizio lamentato”, restando a carico della struttura coinvolta la dimostrazione (alternativa) o dell’esatto adempimento o dell’irrilevanza dell’inadempimento, ha concluso che la conseguenza della carenza documentale non possa che gravare negativamente sul professionista sanitario, dato che lo stesso è tenuto a controllare la completezza e l’esattezza delle cartelle cliniche e della documentazione allegata.
Non tutte le carenze, però, portano ad una presunzione di sussistenza del nesso eziologico tra la condotta del medico e il danno lamentato dal paziente.
Affinché operi tale presunzione, infatti, è necessario che non si tratti di una mera mancanza formale (una cartella incompleta in parti non rilevanti), ma serva invece che tale incompletezza incida sulla possibilità di dimostrare la ricostruzione degli eventi allegata dal paziente.
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