giurisprudenza penale

Diritto del paziente a rifiutare le cure

Se l’art. 32 della Costituzione definisce espressamente la salute come un diritto fondamentale dell’individuo, sancisce altresì che allo stesso spetta il diritto di scelta anche quando le cure siano finalizzate alla sopravvivenza

Il consenso o il rifiuto al trattamento medico da parte del paziente, ovvero la sua volontà di decidere in autonomia, secondo il principio di autodeterminazione, se sottoporsi alle cure per la sua salute, ha sicuramente un ruolo basilare nel contesto sanitario.  

Ma qualora il paziente rifiuti queste cure, può ravvisarsi una responsabilità per il sanitario?

Sul punto si richiama all’articolo 32 della Costituzione, il quale prevede che a ciascuno spetta il diritto fondamentale di scegliere se curarsi o meno, anche qualora le cure siano finalizzate alla sopravvivenza.

Poiché risulta ormai preminente dare importanza al consenso, nessun trattamento sanitario è obbligatorio, fatti salvi quegli interventi che possono essere applicati in caso di motivata necessità ed urgenza e, qualora sussista il rifiuto al trattamento da parte dell’interessato, devono essere disposti con provvedimento del Sindaco, in qualità di massima autorità sanitaria del Comune di residenza o del Comune dove la persona si trova momentaneamente.

Caso scuola è rappresentato dalla sentenza n° 465/2018, emessa dal Tribunale di Termini Imerese, dove il Giudice si è espresso sulla responsabilità penale del medico che aveva praticato ad una paziente un trattamento sanitario, nonostante il suo dissenso, e che ha permesso di effettuare una ricostruzione del fondamento giuridico e della legittimazione dell’attività medico-chirurgica in applicazione della sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 2437 del 2008.

La sentenza che si va ad analizzare, indica i confini dell’intervento medico così come delineati dalla Costituzione e dal Codice Deontologico medico che assicurano il diritto alla salute nel pieno rispetto della dignità di scelta del paziente, qualificando la fattispecie dell’intervento medico contro il dissenso espresso come reato di violenza privata di cui all’art. 610 del Codice Penale.

La vicenda ha ad oggetto la situazione di una giovane donna al quarto mese di gravidanza alla quale veniva diagnosticata la presenza di calcoli della colecisti e sabbia biliare che la esponeva al rischio di una pancreatite acuta che poteva essere fatale per lei e il bambino. Veniva programmato un intervento di colecistectomia per via laparoscopica, considerato meno rischioso per il feto e al momento del suo ingresso ospedaliero, la signora, informata delle sue condizioni cliniche e dei possibili rischi legati all’intervento, per motivi religiosi quale Testimone di Geova, rifiutava emotrasfusioni. In previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminazione, la pazientefaceva allegare in cartella clinica le proprie volontà, anche se in pericolo di vita, accettando, però contestualmente tutte le possibili alternative.

I sanitari procedevano, pertanto, con l’intervento programmato ma, a seguito di un’importante emorragia, dovevano procedere nell’immediato ad un secondo intervento. Nonostante tutti i tentativi, il feto moriva, e la madre riportava una fortissima anemia, per la quale si ritenevanonecessarie trasfusioni di sangue che la paziente, coscientemente continuava a rifiutare.

A quel punto il primario del reparto che ha in cura la donna si rivolge al Pubblico Ministero per avere l’autorizzazione, ma il PM facendo presente la sua incompetenza nella materia, rappresentava al medesimo che qualora avesse deciso di effettuare un trattamento sanitario coattivo, per salvare la vita della paziente, avrebbe risposto sia civilmente che penalmente. Nonostante ciò, il sanitarioprocedeva contro la volontà della donna con tre emotrasfusioni.

Il Tribunale di Termini Imerese, riteneva penalmente responsabile il primario ospedaliero del reato di violenza privata..

Sulla possibilità di decidere liberamente a quali cure sottoporsi, si è espressa anche la Cassazione Penale, n.26446/2012, la quale ha ritenuto non superabile l’espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal paziente, sebbene l’omissione dell’intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’ammalato o la sua morte.

Il Tribunale di Termini Imerese attua pertanto i principi stabiliti dalla sentenza a Sezioni Unite della Suprema Corte sopra menzionata, nonché procede in attuazione di quanto enunciato dalla celebre sentenza della Corte Costituzionale n.438/2008 nella quale “il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art.2 Cost. che ne tutela e promuove i diritti fondamentali e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile” e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

Anche il Codice Deontologico degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri italiani all’art.35recita“il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente” ed aggiunge, quale ulteriore conferma del principio della rilevanza della volontà del paziente come limite ultimo dell’esercizio dell’attività medica, “in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”.

In conclusione, va dunque riconosciuto al paziente un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio stesso della vita”.

Sullo stato di necessità

Il Tribunale di Termini Imerese ha escluso inoltre che si possa invocare la scriminante dello stato di necessità a prescindere dalla sussistenza o meno del pericolo di vita, nel caso di rifiuto manifestato dal paziente a trattamenti sanitari.

Viene così scolpito il perimetro dello stato di necessità: alla luce dei sopra richiamati principi costituzionali è rigidamente circoscritto all’ipotesi in cui il paziente non sia in grado, per le sue condizioni, di prestare il proprio dissenso o consenso.

Sulla configurazione del reato di violenza privata nell’attività medica

Affinché possa parlarsi di violenza privata, di cui all’art. 610 c.p,. occorre che siano chiaramente individuati due elementi: la condotta violenta e l’evento, ossia quello che la persona ha subito contro la sua volontà.

Si parla di violenza privata in caso di qualsiasi mezzo idoneo a comprimere la libertà di determinazione e di azione della parte offesa.

Il primario condannato è stato ritenuto colpevole del reato ex art. 610 cp, essendo egli pienamente cosciente di tutte le manovre che si sarebbero necessariamente compiute per raggiungere lo scopo, ossia far subire alla paziente un trattamento sanitario da questa avversato.

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