In piena campagna vaccinale si cerca ancora la risposta al quesito circa la legittimità o meno del licenziamento del dipendente che rifiuti di sottoporsi al vaccino anti SARS-COV-2
Nessun obbligo di vaccinazione anti Covid, almeno per ora, anche se la nostra Costituzione consente al legislatore di prevederlo in considerazione delle condizioni epidemiologiche e delle acquisizioni nel campo della ricerca medica, nonché del destinatario dell’obbligo. L’art. 32, infatti, tutela la salute non solo come diritto fondamentale del singolo ma altresì come interesse della collettività e permette di imporre un trattamento sanitario se diretto «non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri» (si rimanda alla sentenza della Corte costituzionale, n. 5 del 2018).
Nel caso della pandemia che in un anno, solo in Italia, ha ucciso oltre centocinquemila persone, oltre ad avere imposto pesanti restrizioni, ultima delle quali la colorazione tra l’arancio e il rosso di tutte le Regioni almeno sino a dopo Pasqua, l’unica arma per contenere contagi e decessi è l’intensificazione del numero dei vaccinati.
Sulla campagna vaccinale, iniziata formalmente alla fine del 2020, si è scatenata una discussione molto accesa tra chi (pur in assenza di una norma che renda obbligatoria la vaccinazione contro il Covid-19), sostiene che sia consentito a un imprenditore richiedere la relativa vaccinazione come misura di sicurezza ai propri dipendenti e chi, invece, nega che il datore di lavoro possa imporla per ragioni di sicurezza e, conseguentemente, sanzionare con il licenziamento per giusta causa chi non si adegua a tale disposizione. Sull’obbligo di legge è “tendenzialmente favorevole” il prof. Pietro Ichino.
L’ordinamento italiano conosce numerosi casi di vaccinazioni rese obbligatorie da norme di legge per singole categorie di persone o per tutti: contro la difterite (istituita con la legge n. 891/1939), contro il tetano (istituita per alcune categorie di lavoratori con la legge n. 292/1963, poi estesa a tutti i neonati con la legge 27 aprile 1981 n. 166), contro la poliomielite (l. n. 51/1966), contro la tubercolosi (norma curiosamente inserita in un secondo comma dell’art. 93 della legge finanziaria n. 388/2000), contro l’epatite virale B (n. 165/1991), contro la pertosse, l’Haemophilus influenzaetipo b, il morbillo, la parotite, la rosolia e la varicella (tutte previste dal decreto-legge n 73/2017, convertito nella legge n. 119/2017). A tutt’oggi, però, nessuna norma ha reso obbligatoria la vaccinazione contro il Covid-19; né avrebbe evidentemente potuto fino alla fine del 2020, avendo il vaccino stesso incominciato a essere disponibile soltanto dall’inizio del 2021, e ancora oggi in quantità assai limitate.
In assenza di una legge che la renda obbligatoria, è consentito a un datore di lavoro richiedere la relativa vaccinazione come misura di sicurezza ai propri dipendenti che abbiano l’effettiva possibilità di sottoporvisi?
E’ possibile sulla base di alcune norme che disciplinano il contratto di lavoro – due di carattere generale, che obbligano rispettivamente il datore e il prestatore di lavoro a realizzare le condizioni di massima sicurezza e igiene in azienda a beneficio di tutti coloro che in essa lavorano, e una di carattere specifico riferita all’ eventuale necessità di una vaccinazione.
Può invece il datore di lavoro obbligare il dipendente che non intenda sottoporvisi?
La normativa relativa alla sicurezza sul lavoro, vale a dire le previsioni del D.Lgs. 81/2008 e dell’art. 2087 C.C., il quale impone al datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica di dipendenti, non consente di individuare la possibilità di imporre al lavoratore di farsi vaccinare perché l’obbligo imposto al datore di lavoro di tutelare il dipendente non può violare il diritto di quest’ultimo a rifiutare determinate cure e profilassi. Ragionevolmente, è possibile individuare un’eccezione esclusivamente nel caso in cui il rifiuto di vaccinarsi crei rischi per la salute dei clienti dell’impresa come nel caso in cui il dipendente svolga funzioni a contatto con il pubblico. E tuttavia è prevedibile che anche in tal caso il giudice del lavoro chiederebbe in primo luogo di valutare l’esistenza di far svolgere al lavoratore mansioni che evitino tali contatti.
Affinché un trattamento sanitario obbligatorio possa essere imposto, è necessario che vi sia una legge a prevederlo (riserva di legge), e che tale legge, da un lato, imponga trattamenti sanitari determinati e non mai un generale obbligo di curarsi e mantenersi in buona salute; dall’altro, non violi in nessun modo i limiti imposti dal rispetto della persona umana. In ordine ai quali il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività, se può consentire che, in nome della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato a un determinato trattamento sanitario, non può postulare anche il sacrificio della salute di ciascuno per la salute degli altri: «nessuno può essere semplicemente chiamato a sacrificare la propria salute a quella degli altri, fossero pure tutti gli altri».Il rispetto della persona umana va dunque primariamente inteso nel senso che il trattamento sanitario imposto deve essere finalizzato, non solo alla tutela della salute della collettività, ma anche al miglioramento della salute del singolo al quale è praticato, “nella previsione che esso non incida negativamente sul suo stato di salute, salvo che per quelleconseguenze che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiono normali di ogni intervento sanitario, e pertanto tollerabili”. (sentenza Corte Costituzionale n.307 del 22 giugno 1990)
Ma qualora il perseguimento dell’interesse alla salute della collettività attraverso l’imposizione di trattamenti sanitari comporti, per la salute di quanti a essi devono sottostare, conseguenze indesiderate e pregiudizievoli oltre il limite del normalmente tollerabile, allora il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività non sarebbe da solo sufficiente a giustificare la misura sanitaria che implichi il sacrificio della salute individuale.