Una strada che allo stato attuale non è percorribile senza attuare un bilanciamento tra diritti fondamentali e situazioni da valutare singolarmente
Attualmente la previsione normativa non impone obblighi di vaccinazione “anti Covid” a tutti i lavoratori, ad eccezione degli operatori del settore sanitario.
Difatti, a seguito del Decreto Legge del 1° aprile 2021 n. 44, la vaccinazione, per coloro che operano nel settore sanitario, costituisce requisito essenziale all’esercizio stesso della professione, salvo ipotesi di esenzione, temporanea o definitiva, da tale obbligo, nel caso in cui vi sia un accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate.
In tutti gli altri casi, qualora venga accertata la mancata vaccinazione, è prevista la sospensione dall’esercizio della professione sanitaria, periodo nel quale non è dovuta la retribuzione.
Al di fuori di tale caso specifico, relativo al personale sanitario, i lavoratori non sono sottoposti ad un obbligo di vaccinazione. L’attuale emergenza sanitaria dovuta al Covid-19, però, ha sicuramente imposto al datore di lavoro di compiere scelte imprenditoriali relative alla tutela della salute e del lavoro, volte a garantire misure necessarie per eliminare o ridurre al minimo il rischio di contagio.
L’art. 32 della Costituzione, conosciuto in sintesi come “Diritto alla Salute”, qualifica la salute non solo come “fondamentale”, ma anche come “interesse della collettività” nel senso che rientra nel patrimonio comune oltre che in una libertà di autodeterminazione del singolo di sé e del proprio corpo.
E proprio in un contesto pandemico il diritto alla salute, deve essere visto in tale ottica: bene individuale ma soprattutto collettivo.
Il trattamento sanitario obbligatorio e l’esigenza di tutelare la dimensione collettiva della salute può legittimare il sacrificio della sua dimensione individuale tramite l’imposizione di trattamenti sanitari e difatti, affinché un trattamento sanitario possa essere imposto, è necessario che intervenga una riserva di legge a renderlo obbligatorio.
Il rispetto della persona umana va dunque primariamente inteso nel senso che il trattamento sanitario imposto deve essere finalizzato, non solo alla tutela della salute collettiva, ma anche al miglioramento della salute della persona alla quale è praticato, non potendo in ogni caso comportare conseguenze negative per la sua salute, salvo quelle “normalmente tollerabili”.
Ma altresì, l’art.32 indica anche che nessuno possa essere sottoposto ad un trattamento sanitario, senza che vi acconsenta.
Qualora, il perseguimento dell’interesse alla salute della collettività, attraverso l’imposizione di trattamenti sanitari, comportasse, per la salute di quanti a essi devono sottostare, conseguenze indesiderate e pregiudizievoli oltre il limite del “normalmente tollerabile”, allora il rilievo della salute come interesse della collettività non sarebbe sufficiente da solo a giustificare il sacrificio della salute individuale.
La previsione normativa di cui all’art. 2087 codice civile
L’art. 2087 C.C. dispone che il datore di lavoro debba “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Tale articolo è la norma che si occupa di tutelare la sicurezza sul luogo del lavoro, disciplinando da un lato l’obbligo di sicurezza, e dall’altro mostrandosi versatile ai cambiamenti della realtà socioeconomica ed è altresì, direttamente riconducibile alla tutela costituzionale dell’art. 32 Costituzione.
Benché non vi siano dubbi che il vaccino costituisca ad oggi un valido strumento volto a contrastare la pandemia, la vaccinazione imposta dal datore di lavoro non può trovare fondamento nell’art. 2087 C.C., senza confliggere con l’art. 32 della Costituzione.
Si parla infatti di una norma generale, che si scontra con il diritto fondamentale della persona a sottoporsi liberamente a un trattamento sanitario, se non nei casi in cui vi sia appunto una legge specifica, che nel bilanciamento tra interesse individuale e collettivo dia preminenza al secondo: tale bilanciamento non può essere effettuato dal datore sull’assunto che l’obbligo di sicurezza è un obbligo volto anche alla tutela della collettività.
Né si potrebbe obiettare che in caso di mancata imposizione del vaccino il datore di lavoro verrebbe esposto al rischio di una responsabilità per mancato adempimento degli obblighi di sicurezza ex art. 2087 C.C., in quanto ad oggi, il legislatore stesso ha previsto che, ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid, il datore di lavoro applichi le prescrizioni presenti nel Protocollo sottoscritto dalle parti sociali il 24 aprile 2020.
Protocollo che, ad oggi, non prevede il vaccino come misura di protezione individuale e di prevenzione del contagio; con la conseguenza che il datore non potrà ritenersi responsabile per il contagio eventualmente sul luogo di lavoro e causato da un lavoratore non vaccinato, o che si è rifiutato di vaccinarsi avvenuto, se egli ha correttamente adempiuto alle prescrizioni previste dal Protocollo condiviso.
In conclusione, in assenza di una espressa previsione di legge, l’art. 2087 c.c. risulta non essere idoneo a superare l’ostacolo dato dalla riserva di legge dell’art. 32 della Costituzione.
Questo comporta che allo stato attuale non è percorribile la strada dell’obbligatorietà della vaccinazione. Risulta quindi doveroso attuare un bilanciamento tra i diritti fondamentali in un’ottica di proporzionalità e ragionevolezza e valutare le situazioni caso per caso, con particolare riferimento ai settori maggiormente a rischio, e affidarsi a quel principio solidaristico che impone ai singoli individui di impegnarsi a preservare la sfera giuridica altrui.