“La morte di un uomo, contagiato a seguito di una trasfusione infetta, verificatasi a causa dello sviluppo di epatite C, non rappresenta un “nuovo” danno alla salute, ma deve essere considerato come un prevedibile rischio di aggravamento della patologia contratta”
E’ la sentenza emessa dalla Corte di Cassazione (Sez, III civile n. 29492/2019) intervenuta su una vicenda che ha visto il decesso di un uomo per avere contratto l’epatite C a seguito di una trasfusione di sangue infetto.
La vicenda
Il coniuge e i figli del deceduto convenivano in giudizio il Ministero della Salute per il risarcimento del danno patito, sia iure successionis che iure proprio. In primo grado il Ministero veniva condannato al ristoro dei danni, mentre, in sede di gravame, il giudice accoglieva l’eccezione di prescrizione, sollevata dall’appellante, per i pregiudizi iure hereditatis. Infatti, il danno alla salute patito dall’uomo rientrava nel reato di lesioni colpose, con un termine prescrizionale di 5 anni – ormai passati – decorrente dal momento di conoscenza della malattia e della sua correlazione con l’emotrasfusione. Inoltre, veniva rigettata la richiesta di risarcimento del danno emergente e lucro cessante (danno patrimoniale), nonché la richiesta di danno terminale e catastrofale (danno non patrimoniale), patito dal defunto e richiesto dagli eredi.
La Cassazione, in questa articolata pronuncia, fa chiarezza sulla nozione di danno terminale e catastrofale, enunciando numerosi principi di diritto.
Difatti, l’aggravamento delle condizioni di salute della vittima non costituisce una nuova lesione, ma uno sviluppo di quella precedente. L’ingravescenza, così definita, rappresenta un fenomeno ricorrente di cui si tiene conto nei parametri, barèmes, utili alla determinazione del grado di invalidità. La possibilità di aggravamento non si deve considerare come una conseguenza ulteriore, ma integra il complessivo stato invalidante che condiziona il soggetto.
Tracciabilità della sacca trasfusa
Nel caso di trasfusioni di sangue, peraltro, risulta fondamentale la tracciabilità della sacca di sangue trasfusa, altrimenti l’ospedale risponde personalmente della mancata indicazione di provenienza. L’impossibilità di tracciare una sacca di sangue trasfusa comporta un’irregolarità nella tenuta della cartella clinica a cui può ricollegarsi l’affermazione di responsabilità.
Difatti la cartella clinica è un atto pubblico che adempie alla funzione di diario del decorso della malattia e di altri eventi clinici che devono essere annotati, contestualmente al loro verificarsi ed in maniera precisa e puntuale, altrimenti il personale medico e la struttura sanitaria sono imputabili per negligenza desumibile dalla sua irregolare tenuta. Nel caso di trasfusioni di sangue risulta fondamentale la tracciabilità della sacca di sangue trasfusa.
Quindi il paziente dovrà essere adeguatamente risarcito per il danno derivante dalla trasfusione infetta.
È per tale motivo che la Corte di Cassazione, con ordinanza 17 gennaio 2020, n. 852, ha dichiarato il diritto al risarcimento del danno per il paziente che ha contratto l’epatite B a seguito di trasfusione di sangue infetto.
Diritto al risarcimento dei danni per via successoria
Il danno da emotrasfusione o danno da contagio per via ematica indica il pregiudizio subito da un soggetto a causa di una o più trasfusioni infette o a causa della somministrazione di emoderivati erroneamente sintetizzati. I danni non patrimoniali risarcibili alla vittima, che sia deceduta a seguito delle lesioni e che risultano trasmissibili per via successoria, sono:
il danno biologico terminale, il danno morale catastrofale e il danno non patrimoniale non risarcibile iure successionis è il danno tanatologico, consistente nella perdita del bene vita, autonomo e diverso dal bene salute (Cass. S.U. 15350/2015).
Il primo, danno terminale si inserisce nel danno biologico temporaneo ed è la lesione del diritto alla salute, come danno-conseguenza, consistente in un’invalidità psicofisica. La suddetta invalidità è caratterizzata dal decorso inarrestabile della patologia, contratta a seguito delle lesioni, sino alla morte.
La figura del danno (biologico) terminale emerge con riferimento alle lesioni che conducano, in breve tempo, alla morte. L’oggetto del danno terminale non è la morte, ma il tempo biologico commisurato alle perdute attività quotidiane che il soggetto avrebbe potuto altrimenti compiere. A tal fine, è necessario che tra l’evento lesivo, ossia tra l’insorgere della patologia a seguito della trasfusione e la morte, sia intercorso un apprezzabile lasso di tempo di almeno 24 ore. Infatti, non può parlarsi di accertamento di danno terminale in caso di morte immediata (Cass. 1877/2006; Cass. 15491/2014; Cass. 22228/2014; Cass. 23183/2014; Cass. 18056/2019).
Il danno catastrofale, invece si concretizza nella sofferenza, nel patema d’animo subito dal paziente, nella consapevolezza del progressivo aggravamento, che conduce alla morte. Ciò che rileva è la lucida percezione della fine.
L’incapacità biologica temporanea perdura in relazione alla durata della malattia e viene a cessare con la guarigione, con pieno recupero delle capacità anatomo-funzionali dell’organismo, o invece con l’adattamento dell’organismo alle mutate e degradate condizioni di salute, o ancora con la morte.
Nel caso di patologie ingravescenti, in cui non può escludersi anche un possibile futuro esito letale, non viene in questione un “danno terminale” (danno biologico da inabilità temporanea), ma un danno “biologico da invalidità permanente”, atteso il rischio cui è esposto il paziente, di subire anche a distanza di tempo, uno sviluppo del fattore patogeno, che potrebbe sia condurre al decesso o comunque farlo incorrere in ulteriori complicanze peggiorativamente sullo stato di salute, eziologicamente riconducibili all’originaria patologia.
L’aggravamento, costituisce la mera concretizzazione di un rischio connesso alla patologia, la cui possibilità di accadimento era stata già considerata nella stima della ridotta validità biologica del soggetto residuata dopo la lesione. Diverso essendo il caso in cui, al tempo della lesione, l’ulteriore evento dannoso, manifestatosi a distanza di tempo, pur riconducibile eziologicamente alla originaria lesione, fosse stato invece del tutto imprevedibile e sconosciuto alla scienza medica, e quindi non considerato dai “barèmes”: in quest’ultima ipotesi, infatti, l’evento dannoso successivamente verificatosi viene ad incidere sul perfezionamento di tutti gli elementi della fattispecie illecita e, rendendo solo successivamente conoscibile la relazione di derivazione causale del “nuovo” danno dalla originaria lesione della salute, legittima la proposizione di una distinta domanda risarcitoria.