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Giurisprudenza Penale

La responsabilità medica in caso di sintomatologia aspecifica

La sentenza del Tribunale di Catanzaro, n. 489/2018 esclude la responsabilità medica in ragione della aspecificità della sintomatologia lamentata dal paziente.

Secondo il giudice, in mancanza di sintomi chiari e precisi, i sanitari non avrebbero potuto impedire

l’evento dannoso.

Con la nota sentenza del Tribunale di Catanzaro n. 489/18, il Giudice di merito ha ritenuto pacifico escludere la responsabilità medica in ragione della aspecificità della sintomatologia lamentata dal paziente, rispetto alla malattia che lo aveva condotto successivamente al decesso, nonostante il personale sanitario di pronto soccorso non avesse trattato con urgenza l’uomo e non avesse diagnosticato la patologia.

Il caso e la soluzione

I congiunti di un uomo deceduto in seguito ad arresto cardiaco ricorrevano al Tribunale, al fine di ottenere la condanna in solido della struttura ospedaliera e dell’infermiera addetta al triage in pronto soccorso, al risarcimento dei danni subiti iure proprio per la perdita del rapporto parentale, morale ed esistenziale, nonché dei danni iure hereditatis subiti dall’uomo, quali la perdita di chance di sopravvivenza ed il danno biologico terminale.

In particolare, gli attori evidenziavano che l’uomo, dopo aver richiesto l’intervento del servizio 118 presso la propria abitazione, in quanto lamentava forti dolori al torace ed immobilità dell’arto inferiore destro, veniva portato al pronto soccorso dell’ospedale convenuto, con codice giallo di criticità per dolore toracico. Successivamente, l’infermiera addetta al triage, dopo aver parlato con l’uomo, gli attribuiva un codice bianco. Trascorse tre ore senza essere stato visitato, l’uomo decideva di abbandonare la struttura e fare rientro alla propria abitazione.

Nel primo pomeriggio del giorno seguente, accusando ancora dolore al torace, l’uomo si recava nuovamente presso il pronto soccorso della struttura ospedaliera, ove sottoposto a controlli clinici decedeva circa quattro ore dopo l’arrivo.

I congiunti deducevano, infine, che in sede di procedimento penale era stata accertata l’inadeguatezza dell’attività professionale dell’infermiera che aveva sottovalutato la situazione del paziente.

Gli accusati

L’azienda ospedaliera e l’infermiera si costituivano in giudizio e chiedevano il rigetto delle domande attoree ritenendo che la sintomatologia lamentata dall’uomo non avrebbe potuto permettere di diagnosticare la patologia che lo aveva poi condotto al decesso.

La causa veniva istruita mediante consulenza tecnica medico-legale. All’esito, il giudice rigettava le domande di parte attrice, escludendo l’applicabilità della Legge Gelli-Bianco al caso di specie, in quanto in applicazione del principio di irretroattività, la nuova legge non può essere applicata non soltanto ai rapporti giuridici esauritisi prima dell’entrata in vigore, ma anche a quelli nati anteriormente ed ancora in essere. Secondo il Giudice, la nuova legge è dunque applicabile soltanto alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, anche se conseguenti ad un fatto passato.

In ragione di ciò, il giudicante ha evidenziato che nel caso concreto per valutare la sussistenza dell’inadempimento della prestazione della struttura sanitaria e dell’infermiera doveva farsi riferimento alla diligenza del debitore qualificato di cui all’art. 1176, comma 2, c.c. e all’art. 2236 c.c., nella parte in cui limita la responsabilità alle ipotesi di dolo o colpa grave nei casi di prestazione implicante la soluzione di problemi di particolare difficoltà.

A tal riguardo, il giudice ha altresì precisato che sul professionista grava un’obbligazione di mezzi, con la conseguenza che il mancato raggiungimento del risultato non comporta di per sé l’inadempimento, che sussiste soltanto nel caso di comportamento non conforme alla diligenza richiesta.

Infine, il giudicante si è richiamato ai principi in materia di nesso di causalità fatti propri dalla giurisprudenza di legittimità, evidenziando che in ambito civile il nesso eziologico tra la condotta e l’evento deve essere accertato sulla base della regola del più probabile che non”, a differenza di quanto avviene nel processo penale, in cui si applica la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”.

In considerazione di ciò, secondo il giudice, il nesso causale sussiste quando è possibile ritenere, in base al criterio probabilistico, che la prestazione del sanitario, se correttamente e tempestivamente eseguita, avrebbe potuto evitare il danno.

All’esito di tali premesse, il giudice rilevava che: i) il CTU non aveva potuto accertare quale terapia farmacologica fosse stata somministrata all’uomo al momento dell’arrivo al pronto soccorso dell’ente ospedaliero, in quanto la scheda del 118 non era stata prodotta in atti; altresì, il CTU riteneva corretta l’attribuzione del codice bianco da parte dell’infermiera addetta al triage, in quanto i sintomi lamentati dall’uomo si erano attenuati, o erano addirittura scomparsi, tanto che il paziente si era volontariamente allontanato dal pronto soccorso ed era tornato autonomamente alla propria abitazione; iii) tale allontanamento, secondo il CTU, aveva ritardato gli accertamenti clinici che avrebbero consentito di formulare la diagnosi.

Con riferimento, invece, a quanto accaduto il giorno successivo presso il medesimo pronto soccorso, il giudice, riportandosi alle osservazioni del CTU, ha rilevato la completezza dei controlli clinici a cui il paziente era stato sottoposto presso l’ospedale.

In conclusione, richiamandosi nuovamente agli esiti della Consulenza Tecnica, il giudicante ha accertato che i sintomi lamentati dal paziente al momento dei due arrivi al pronto soccorso erano aspecifici rispetto all’aneurisma acuto che aveva causato la morte, così come accertato in sede autoptica.

In particolare, ritenendo che il primo giorno non vi era alcun elemento che consentisse di valutare la condizione del paziente tale da attribuire al medesimo un codice di urgenza maggiore, giallo o rosso; inoltre l’allontanamento del paziente dalla struttura ospedaliera aveva impedito la rivalutazione del triage del paziente. Il secondo giorno, analogamente, al momento dell’accesso al pronto soccorso, il paziente presentava una sintomatologia aspecifica rispetto alla patologia diagnostica, post mortem, con l’autopsia.

In considerazione di quanto sopra, il giudice ha escluso qualsivoglia errore da parte dei sanitari della struttura ospedaliera addetti all’attribuzione dei codici ai pazienti che giungono al pronto soccorso, sottolineando altresì che il rischio di mortalità derivante dalla patologia era identico entrambi i giorni ed il comportamento del personale non aveva ridotto le chance di sopravvivenza dell’uomo.

Il giudice ha dunque rigettato le domande risarcitorie, rilevando come gli attori non avessero fornito prova del nesso di causalità tra la condotta dei sanitari ed il danno, in quanto il personale dell’ospedale convenuto non avrebbero potuto impedire il decesso del paziente, sia il primo che il secondo giorno.

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