Risponde ai fini civilistici anche la struttura sanitaria privata per la condotta omissiva colposa dell’infermiere che attribuisce un codice sbagliato ad un paziente in seguito deceduto.
La Struttura risponde nel caso in cui l’operatore sbagli codice di ingresso del paziente al triage.
E’ quanto ha stabilito la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza del 30 maggio 2017, n. 26922.
È indispensabile chiarire che cosa sia il codice per il triage, più semplicemente noto come codice di pronto soccorso.
Come noto, al pronto soccorso l’accesso alle cure non avviene in base all’ordine di arrivo bensì secondo la gravità della situazione di salute del paziente cui l’infermiere di turno assegna un codice, detto appunto di triage.
Al variare del colore del codice cambia anche la gravità delle condizioni; i codici, posti in ordine crescente di gravità, sono i seguenti: bianco (non urgente), verde (differibile), giallo (situazione pericolosa), rosso (urgenza assoluta). L’attribuzione del codice viene effettuata a seguito di un’iniziale analisi, svolta dall’infermiere a ciò addetto, finalizzata a valutare quanto sia grave la situazione di salute del paziente e, di conseguenza, con che priorità si debba intervenire.
Appare in tutta evidenza come un’errata attribuzione del colore del codice da parte dell’operatore sanitario addetto, possa avere conseguenze molto gravi, se non irreparabili in taluni casi, qualora sia assegnato un codice bianco o verde ad un soggetto che invece necessitava di un codice rosso con intervento immediato e ancor di più nel caso di successivo decesso.
In tema di accertamento del rapporto di causalità di cui all’articolo 40 c.p. la giurisprudenza di legittimità da tempo ha affermato che nel reato colposo omissivo improprio detto rapporto non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.
Nella verifica dell’imputazione causale dell’evento occorre dare corso ad un giudizio predittivo, sebbene riferito al passato: il giudice si deve interrogare su ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta.
Con riferimento alla condotta omissiva, la medesima giurisprudenza ha enunciato il carattere condizionalistico della causalità omissiva, indicando il principio secondo il quale il giudizio di certezza del ruolo salvifico della condotta omessa presenta i connotati del paradigma indiziario e si fonda anche sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico, da effettuarsi ex post sulla base di tutte le emergenze disponibili, e culmina nel giudizio di elevata probabilità logica.
Nel reato omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di elevata probabilità logica che, a sua volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento deduttivo basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo circa il ruolo salvifico della condotta omessa, elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e focalizzato sulle particolarità del caso concreto (Cass. pen., Sez. IV, 11 maggio 2016, n. 26491).
Nella fattispecie la Suprema Corte osserva che l’erronea classificazione delle condizioni del paziente ritenuto da codice verde era stato frutto della condotta omissiva imperita e negligente tenuta dall’operatore sanitario che trascurava del tutto di apprezzare le condizioni del paziente, sia all’arrivo in pronto soccorso sia successivamente nella doverosa rivalutazione che si imponeva, in ragione della sintomatologia lamentata e rapportata all’età.
Si deve chiarire ora come, ai fini della concreta rimproverabilità del reato di omicidio colposo in capo all’autore, sia indispensabile il c.d. elemento soggettivo della colpa, ossia la condotta dell’infermiere deve essere contraria, ex art. 43 c.p., a regole di prudenza, diligenza, perizia ovvero inosservante di leggi, regolamenti o discipline specifiche.
Appare infatti in tutta evidenza come non sia possibile muovere alcun rimprovero all’operatore sanitario che ha sì attribuito un codice meno grave di quello che sarebbe stato necessario per curare tempestivamente il paziente, ma, posto il rispetto delle linee guida mediche riguardanti il triage, e in considerazione delle concrete circostanze (ad es.: mancata presenza di alcun sintomo, nessuna familiarità con la patologia, ecc.), non avrebbe in nessun modo potuto assegnare il codice più grave.
Sarà, per contro, responsabile il sanitario che ponga in essere una condotta gravemente imprudente e colposa, e che si configura, ad esempio e senza pretesa di esaustività, quando questo ometta:
– di rispettare le linee guida del triage ai fini dell’inquadramento del caso clinico del paziente nel corretto codice d’urgenza;
– di informarsi circa la familiarità del paziente con patologie pregresse;
– di compilare correttamente la scheda di accettazione al pronto soccorso;
– di verificare le condizioni del paziente dopo molte ore di attesa e nonostante le lamentele di questo circa peggioramento delle sue condizioni.
È giusto affermare quindi, sulla base delle considerazioni svolte, come un infermiere di triage che commetta un evidente errore di assegnazione del codice di urgenza, violando le relative linee guida, a causa del quale il paziente deceda o subisca dei gravi danni, e ciò in virtù delle mancate terapie che invece avrebbero evitato il verificarsi di questi eventi, sarà chiamato a rispondere penalmente per il reato di omicidio colposo o di lesioni personali colpose.
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