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Giurisprudenza Penale

Responsabilità medica e diagnosi differenziale

Per poter escludere la responsabilità del sanitario, non è sufficiente che questi abbia effettuato correttamente l’intervento, è altresì necessario stabilire se ha effettivamente intrapreso il percorso diagnostico terapeutico ideale, suggerito sulla base della migliore scienza ed esperienza di quel contesto storico.

É quanto la Suprema Corte ha ribadito nella recente sentenza n. 12968 del 6 aprile 2021.

Bisogna, quindi, riportarsi al momento in cui la decisione di operare è stata presa e valutare, ora per allora, se, con esami più approfonditi, poteva essere scoperta qualche patologia tale da sconsigliare l’intervento.

L’attività medica, infatti, deve essere ispirata, in ogni sua fase, ai principi di prudenza, perizia e diligenza: in primo luogo nella effettuazione della diagnosi e nella individuazione della terapia, anche chirurgica, necessaria.

È proprio in virtù di tali principi che il convincimento del sanitario di aver individuato la patologia da trattare non è sufficiente a giustificare l’espletamento di un intervento chirurgico, se prima non ha proceduto a scartare tutte le ipotesi possibili e ad eliminare le diverse patologie che presentano la stessa sintomatologia; non essendo immune da responsabilità neppure qualora l’intervento sia stato svolto correttamente.

Il sanitario, dunque, in caso di dubbio tra diverse patologie, ha l’obbligo di operare la cosiddetta diagnosi differenziale, attraverso la quale la malattia viene individuata per via residuale, una volta che le altre ipotesi siano state scartate attraverso quello che è un processo insieme logico e scientifico.

Il medico, infatti, ha l’obbligo di acquisire tutte le notizie necessarie al fine di garantire la necessità e la correttezza del trattamento chirurgico praticato: deve valutare se occorra compiere gli approfondimenti diagnostici necessari, per stabilire quale sia l’effettiva patologia che affligge il paziente ed adattare le terapie a queste plurime possibilità.

L’esclusione di ulteriori accertamenti può essere giustificata esclusivamente per la raggiunta certezza che una di queste patologie possa essere esclusa.

Invero, la scelta degli interventi terapeutici è rimessa alla discrezionalità del medico, cosicché la colpa di quest’ultimo, nell’ipotesi d’alternativa terapeutica, non può essere valutata con riguardo alla necessità della certezza del risultato, bensì in relazione all’osservanza delle regole di condotta proprie della professione che sono finalizzate alla prevenzione del rischio collegato all’opzione terapeutica eletta.

Stante la posizione di garante assunta dal sanitario, questi è tenuto ad adottare la soluzione di un procedimento diagnostico più rigoroso, al fine di scongiurare ogni rischio per la salute del paziente.

Fino a quando il dubbio diagnostico non sia stato risolto e non vi sia incompatibilità tra accertamenti diagnostici e trattamenti medico-chirurgici, il medico che si trovi di fronte alla possibilità di diagnosi differenziale non deve accontentarsi del raggiunto convincimento di aver individuato la patologia esistente quando non sia in grado di escludere la patologia alternativa, proseguendo gli accertamenti diagnostici ed i trattamenti necessari.

L’errore diagnostico, dunque, “si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli ed accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi” (Cass. Pen. Sez. 4, n. 23252 del 21/02/2019; Cass. Pen. Sez. 4, n. 21243 del 18/12/2014).

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