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Giurisprudenza Penale

L’infezione nosocomiale presenta idoneità interruttiva?

Per la Cassazione la morte del paziente per infezione post-operatoria non cancella l’errore medico

In tema di responsabilità medica, l’infezione nosocomiale non presenta idoneità interruttiva, in relazione al nesso causale tra la condotta del medico e l’evento lesivo, perché il sopravvenire di un rischio nuovo deve presentarsi come penale, sezione IV, sentenza 11 luglio 2017, n. 33770). del tutto incongruo rispetto alla condotta originaria.

La Corte d’Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado nei confronti di un medico anestesista, imputato di omicidio colposo ai danni di un paziente ricoverato presso il nosocomio X per l’intervento chirurgico di riduzione frattura nasale, a seguito del quale, veniva trasferito in rianimazione dove decedeva per insufficienza cardiorespiratoria.

Le risultanze processuali

rivelavano che nel paziente si era manifestata una encefalopatia ischemica, dalla quale era derivato lo stato comatoso, con successivo peggioramento e decesso. L’ischemia cerebrale veniva ricollegata causalmente ad una carenza di ossigeno, a seguito della condotta tenuta dal medico.

Secondo le linee guida, infatti, il medico avrebbe dovuto assicurare al paziente una corretta ventilazione polmonare durante l’intervento, mentre la cattiva gestione delle vie aeree aveva determinato una condizione di prolungata ipossia con conseguente danno cerebrale. La sofferenza dell’organismo a causa di scarsa ossigenazione del sangue era stata evidenziata nel corso dell’intervento attraverso accertamenti clinico-strumentali.

Il ricorrente affidava le proprie difese a due differenti ipotesi causali esplicative: nella prima evidenziava che l’infezione insorta nel reparto di terapia intensiva e quindi andava ad elidere il rapporto eziologico tra la concausa preesistente e l’evento lesivo; la seconda riteneva comunque che la mancata tempestiva ossigenazione potrebbe non essere stata la sola causa del decesso e, quindi, un eventuale profilo di colpa sarebbe ascrivibile a colpa lieve di cui all’art. 3 L. 189/2012.

La Corte di Appello ha respinto le doglianze dell’imputato, ricusando la ricostruzione della difesa, a mente della quale le infezioni contratte dalla vittima all’interno del reparto di rianimazione avevano avuto portata interruttiva nel nesso di causalità rispetto alle condotte del medico così come l’impostazione che voleva ascrivere a colpa lieve la condotta dell’imputato.

Anche la Suprema Corte ha rigettato le doglianze del ricorrente, evidenziando che il medico imputato non aveva preso nella giusta considerazione la mancata ossigenazione durante l’intervento e ciò avrebbe determinato, sul piano causale, il decesso del paziente.

Il motivo di doglianza principale si fonda sulla rilevanza causale delle infezioni insorte nel reparto di terapia intensiva, in rapporto all’accertamento della concausa preesistente relativa alla ridotta ossigenazione del paziente durante l’intervento. Secondo il ricorrente, in ogni caso, tale ridotta ossigenazione potrebbe non essere stata la sola causa del decesso, cosicché un eventuale suo profilo di colpa sarebbe ascrivibile alla colpa lieve.

La Suprema Corte però, in linea con i Giudici precedenti, respinge tale tesi difensiva, ritenendo che se il medico avesse eseguito un controllo adeguato e costante durante l’intervento, l’ipossia non sarebbe insorta o comunque non sarebbe durata per ben cinque minuti, anche perché debitamente segnalato dal macchinario d’allarme.

Il percorso logico-motivazionale della Corte di Cassazione, per il vero, ripercorre la ricostruzione già operata dai precedenti Giudici e non considera le infezioni sopraggiunte sul paziente come interruttive del rapporto causale condotta-evento. La causa interruttiva, da sola sufficiente a provocare l’evento morte, è infatti costituita da quel fatto che si presenta come nuovo, imprevedibile e che descrive un decorso causale atipico; solo in questo caso si potrà considerare interrotto il nesso causale tra la condotta originaria dell’agente e l’evento.

Nel caso di specie, tra la condotta del medico che è consistita nell’avere causato l’ipossia cerebrale e la morte del paziente, l’infezione contratta nel reparto di terapia intensiva non si inserisce quale segmento interruttivo del rapporto causale condotta-evento morte, che dà luogo ad una seriazione causale autonoma.

La Corte rileva infatti come la cd. “infezione nosocomiale” sia uno dei rischi tipici e prevedibili di cui tener conto nei reparti di terapia intensiva, non presentandosi affatto come “rischio nuovo e incommensurabile”, ma anzi prevedibile come sviluppo dei processi infettivi. In forza dell’art. 41, c. 2 c.p., il nesso causale penalmente rilevante dovrebbe essere escluso in tutti quei casi nei quali l’evento lesivo non sia inquadrabile in una successione normale di accadimenti.

E’ anzi un rischio tipico quello di contrarre infezioni stazionando per un periodo prolungato nella sala rianimazione; con la conseguenza che è altamente probabile che si manifesti “l’infezione nosocomiale”.

Al fine di ricostruire il processo causale, occorre utilizzare funzioni che mettano in connessione logica l’azione dell’agente all’evento. Pertanto, la funzione azione-evento deve prima di tutto “resistere” al processo di eliminazione mentale (la cd. condicio sine qua non): l’evento dannoso è causato dall’azione se questa non può essere mentalmente eliminata senza che venga meno l’evento. Inoltre, l’evento causato deve essere preso in considerazione nella sua conformazione concreta”.

Infine, la determinazione del nesso causale deve essere misurata da criteri tendenzialmente certi o il più possibile controllabili, in modo che sia proprio il giudizio causale a fornire una spiegazione adeguata, sul piano della probabilità logica e della credibilità razionale, all’evento concreto. Nel caso di specie, la condotta del medico ha causato certamente una condizione di ipossia cerebrale per un periodo prolungato (condicio sine qua non), che ha condotto alla morte del paziente.

E, tutto ciò, indipendentemente dalla eventuale concausa delle infezioni contratte in sala di terapia intensiva, altamente prevedibili e quindi insufficienti ad essere considerate quali segmento interruttivo del processo causale, l’infezione nosocomiale non presenta idoneità interruttiva, in relazione al nesso causale tra la condotta e l’evento, perché il sopravvenire di un rischio nuovo deve presentarsi come del tutto incongruo rispetto alla condotta originaria” (cfr. Cass, sez.4, n. 25689/2016). Né il giudizio della Corte muterebbe se l’infezione fosse considerata concausa dell’evento morte.

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